Michaela K. Bellisario: “Con ‘Parlami di lei’ voglio dare voce a mia figlia, vissuta per 20 ore dopo nascita”

Ci sono vicende che accadono e ti chiedi perché. Perché proprio a te, che cosa hai fatto di male. In fondo non chiedevi poi tanto, volevi solo vivere una vita semplice fatta di cose normali, come una famiglia, dei figli, un lavoro che ti piace. Alexandra – la protagonista di Parlami di lei,  romanzo della giornalista di Io Donna Michaela K. Bellisario – sembrerebbe avere tutto: un impiego che le permette di viaggiare, un marito che la ama, una bella casa e una bimba in arrivo quando ormai non ci sperava più. In un attimo tutto questo scompare e scopre com’è trascorrere i propri giorni sprofondata nel dolore. Una storia che ha vissuto in prima persona Michaela, che nel 2011 ha perso la figlia appena nata rischiando anche lei di morire.

Ho incrociato la storia di Michaela per caso (ma davvero sarà così?) questa estate, mentre non stavo bene per via dell’aborto. Le ho scritto proponendole l’intervista e quello che leggerete è la testimonianza preziosa di una donna che ha saputo – come viene riportato nel libro – “trasformare il suo veleno in medicina”, un concetto chiave del Buddismo che dovrebbe valere per tutti noi quando pensiamo di non farcela. 

Michaela come mai hai sentito l’esigenza di scrivere un romanzo come Parlami di lei per raccontare ciò che è successo realmente nella tua vita?

Volevo dare voce a mia figlia, a questa bambina nata e vissuta per venti ore che ha respirato solo una volta. Quando mi è stato detto, nella tragedia ho provato poesia. Perché si viene al mondo per respirare una sola volta? In realtà nella mia storia non c’era poesia. Un batterio ha infettato i polmoni della nostra piccola poche ore prima del parto e per lei non c’è stato scampo. Anni dopo ho sentito semplicemente il bisogno di ricordarla e di sottolineare il lungo processo di emersione dal dolore. Un dolore che mi ha fatta crescere e che ha portato nuovi contenuti nella mia vita. Figli poi non ne ho più avuti. Questa consapevolezza è stata altrettanto dura da accettare. Così mi sono ricordata la frase che mi è rimasta più impressa dal lavoro con la psicologa, “Si può essere madri in tanti modi”: mettere a frutto la creatività con il racconto della mia esperienza è stato un po’ come farla rinascere.

Quanto ci hai messo a scriverlo? Immagino che sia stato un processo non semplice…

Il libro ha avuto una gestazione lunga dal primo incontro con la mia agente nel 2013. Ho impiegato mesi per raccogliere le idee, non mi decidevo a stendere una scaletta quasi per non ammettere lo storico dell’accaduto, dentro di me ribollivano solo le emozioni. La stesura, una volta fatta pace con i ricordi, è stata veloce, invece. Quando ho consegnato il libro c’è stata subito un’asta tra le due più grandi case editrici italiane. Ha vinto quella su cui puntavo. Parlami di lei, che all’inizio si intitolava Nata due volte, sarebbe dovuto uscire nel settembre 2014. Invece per una serie di operazioni commerciali, all’ultimo momento ne è stata sospesa la pubblicazione. E’ stata una mazzata, un altro choc. Ho detto alla editor che mia figlia “era morta di nuovo”. Un’affermazione forte ma che ho avuto bisogno di fare. Mesi dopo ho capito che era stato meglio così: avevo bisogno di lavorare ancora su alcuni aspetti del libro. Sdoppiare il memoir dal romanzo. Ho pianto molto mentre lo scrivevo. Piango ogni volta che lo sfoglio. E’ inevitabile.

Secondo le stime dell’OMS una gravidanza su quattro non va a buon fine eppure non se ne parla. Secondo te perché?

Prima di tutto perché i numeri sono suscettibili di variazioni. Poi per carenza culturale, non c’è sensibilità sul tema. Leggevo l’altro giorno che ogni giorno 830 donne muoiono per gravidanza o parto nel mondo. Un numero abnorme, eppure l’articolo concludeva dicendo che “comunque l’Italia è fra i Paesi con il tasso di mortalità più basso nel mondo per queste cause”. La morte per parto, la gravidanza che non finisce bene è una statistica, niente più. Non c’è attenzione al dolore della donna, dolore che si finisse per vivere da sole. A Milano, dove ho partorito, l’unica fortuna che ho avuto è stata di essere ricoverata in un ospedale con il migliore – e forse unico – servizio di supporto psicologico della città.  Quante donne tornano a casa a mani vuote con un forte choc nel cuore senza assistenza? Purtroppo tante.

Per mia esperienza il dolore per un aborto e per un lutto perinatale non hanno dignità. Tu cosa ne pensi?

Non è che non abbiano dignità, semplicemente il pensiero dominante è fare “pat pat” sulla spalle e mormorare le solite frasi di circostanza, “Dai, ne farai un altro”. Come se concepire e mettere al mondo un figlio fosse una questione semplice. Al netto da paure e da ansie.

Come sei riuscita a superare il dopo? Io sto facendo una fatica tremenda ed ero solo di 6 settimane…

Non si supera mai il dopo: la cicatrice resta sempre. E’ visibile, io porto i segni del cesareo d’urgenza. Si attenua il dolore, ma non lo si supera. Però lo si attraversa. Per fortuna. Il dolore fa vedere cose che altrimenti non avresti visto. Ti fa lavorare nel profondo dell’anima. La verità è che ci ho messo anni a trovare la luce, ogni donna incinta, ogni bambino che nasceva è stata una tortura. Poi ho fatto incontri fortunati, come quello con il buddhismo. E ho capito che potevo essere felice lo stesso, qui e ora. Semplicemente perché la vita è qui e ora. Non è nel passato o nel futuro.

In un dolore come il lutto perinatale le donne vengono lasciate spesso sole, senza alcun sostegno anche per la vita di coppia che spesso viene messa a dura prova dopo un’esperienza simile. Secondo te cosa si potrebbe fare per aiutarle?

Ne parlavo qualche tempo fa con una psicologa. Bisogna fare rete, bisogna parlarne, bisogna creare un network. Siti come questo sono utili per creare una community, dobbiamo sostenerci e sensibilizzarci tra noi. Perché poi siamo tutte sulla stessa frequenza d’onda come mamme, anche se a volte le differenze culturali a volte ci allontanano.

Una domanda delicata a cui se vuoi puoi anche non rispondere: ti manca essere madre?

Si può essere madre in tanti modi, mi aveva detto la psicologa dell’ospedale prima di ritornare a casa, come ho anticipato prima. All’epoca non avevo capito questa frase, che conteneva anche qualcosa di beffardo in sé. Poi ho compreso l’intelligenza di questo consiglio: ogni volta che si “partorisce” un’idea, ogni volta che si è costruttive, ogni volta che ci si prende cura di qualcuno, si è “madri”. Madre lo sono stata, ho portato mia figlia in grembo con me, sono cresciuta con lei nelle 37 settimane e 4 giorni in cui siamo state insieme. Sarò madre tutta la vita, lo so. Lei è con me, lei è quello che sono adesso. So che tutto questo dolore mi ha fatto fare un salto in avanti nella comprensione della mia stessa esistenza. Alla fine del romanzo scrivo: “Voglio dare valore alla vita. Perché sono viva. Adesso. Perché ha un significato. Perché Martina sarà sempre con noi. Andrea e io saremo per sempre i suoi genitori. Nessuno può cancellare questa verità, questo dato di fatto. Martina l’abbiamo voluta e amata. E noi ci siamo amati intensamente. Siamo connessi e legati profondamente tutti e tre insieme”.

Parlami di lei è in tour. Domenica 1 ottobre Michaela sarà a presentarlo a Padova a La Forma del libro, in via XX Settembre, alle 18.30.

Foto credits: ufficio stampa

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