Paola Cipriano, psicoterapeuta: “Un figlio non lo ami sempre, bisogna accettarlo”

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Paola Cipriano è psicologa e psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico. da molti anni collabora con servizi di medicina generale, svolgendo la sua attività clinica in percorsi di sostegno e cura con persone adulte, in particolar modo nell’ambito dell’ansia e depressione.

Esperta di psicologia perinatale ha fondato Asipp, Associazione scientifica italiana di psicologia perinatale (www.asipp.it), occupandosi di formazione e supervisione per tutti gli operatori del settore materno infantile.

Collabora con servizi territoriali per la realizzazione di progetti rivolti alla prevenzione della depressione post parto conducendo gruppi di sostegno per le neomamme e bambini. Svolge attività clinica di consulenza e psicoterapia nel suo studio di Milano (www.psicologacipriano.it)

Si impegna nel favorire la diffusione della psicologia perinatale e in particolar modo di una cultura della maternità realistica, cercando di abbattere l’antico e dannoso pregiudizio che vede l’esperienza dell’avere un figlio come qualcosa di esclusivamente felice e luminoso.

Dott.ssa Cipriano, quando si può dire che una mamma soffre di depressione post partum?

Una neomamma potrebbe soffrire di depressione post parto quando, dopo circa due mesi dal parto, si accorge di sperimentare uno stato d’animo di tristezza e di abbattimento per la maggior parte del giorno, tutti i giorni. I pensieri diventano negativi e affollano la mente della donna nel suo quotidiano: si sente incapace di svolgere il suo nuovo ruolo di mamma e si sente colpevole per tutto quello che non va nel bambino. La convinzione di non avere valore può coinvolgere anche la relazione con il proprio partner e quindi, oltre a sentirsi una cattiva madre, ci si sente anche una cattiva moglie o compagna. Emerge una forte perdita di interesse e di piacere nei confronti di tutte o quasi tutte le attività che, prima, di solito piacevano e si facevano volentieri.

Altri sintomi, spesso presenti nella depressione post parto, possono essere stanchezza eccessiva, difficoltà a concentrarsi e a pensare lucidamente, cambiamenti dell’appetito: si mangia troppo o troppo poco.

Un altro importante disturbo coinvolge l’area del sonno: la mamma non dorme abbastanza ma non a causa dei risvegli del piccolo ma perché tenderà a svegliarsi troppo presto al mattino o avrà difficoltà a riaddormentarsi, una vota che il bambino dorme.

A volte, invece, si ha un comportamento opposto con la tendenza alla letargia ovvero al dormire troppo.

La neomamma può sentirsi distaccata emotivamente da suo figlio, sperimentando poco coinvolgimento nell’accudirlo. L’ansia è estremamente frequente ed è difficile da controllare: spesso è concentrata sul bambino e sulla sua salute. Nei casi di depressione post parto intensa possono comparire pensieri di morte e di suicidio poiché si è convinte che non valga la pena vivere. C’è da dire, però, che in una ricerca del 1998 (Appleby et al.) il bambino sembra avere un effetto protettivo sul passaggio all’atto suicidario: il tasso di suicidi è di 0,9% nel primo anno dopo il parto, calcolato su una popolazione di 1.567 donne affette da depressione post parto.

La depressione post partum può dipendere da fattori ambientali o sociali? Mi spiego: una mamma che ha un figlio in un ambiente culturale elevato, senza problemi economici può avere le stesse probabilità di ammalarsi di una che vive in una condizione più disagiata? La depressione post partum può colpire anche le mamme che hanno avuto un aborto o le mamme adottive?

Definire le cause e, di conseguenza, i termini di probabilità della depressione post parto non è semplice. La teoria più accreditata oggi è che alla base di questo disagio c’è una combinazione di fattori che si intersecano fra loro: vulnerabilità biologica e caratteriale sommate ad eventi stressanti e scarse abilità sociali. Sono in gioco fattori bio-psico-sociali.

Le recenti ricerche hanno poi permesso di stilare un elenco di fattori di rischio che, statisticamente, appaiono più significativi e altamente correlati allo sviluppo di una depressione post parto.

Tra i più importanti ci sono:
Un disturbo psicologico pregresso

 – Familiarità al disturbo

– Storia di psicopatologia in gravidanza

– Isolamento sociale

– Patologie endocrine

– Recenti eventi di vita stressanti

– Aborti e lutti recenti

– Complicanze ostetriche o problemi di salute del bambino

– Storie di abuso, violenza domestica

– Relazione conflittuale con il partner

– Livello socio economico basso

– Disoccupazione

C’è poi da dire una cosa: la maternità è un momento di grande crisi e come ogni cambiamento porta con sé grandi opportunità di crescita ma anche rischi psicopatologici. Insieme ai fattori di rischio c’è la questione delle aspettative: se si hanno aspettative idealizzate e se si ambisce al raggiungimento di una perfezione le cose diventeranno ancora più difficili. Non è tanto l’evento in sé quanto la percezione e la valutazione dell’esperienza vissuta a influire sull’adattamento. 

Quali sono le difficoltà che le mamme riportano quando entrano in psicoterapia?

Nella mia esperienza le mamme fanno fatica ad accettare l’ambivalenza emotiva nei confronti del proprio bambino e il cambiamento di vita.

Non è vero che un figlio lo ami sempre, a volte non lo sopporti, ti infastidisce, vorresti andare via lontano e non occupartene per un po’. E’ normale. In tutte le relazioni significative noi proviamo amore ma anche insofferenza; capita con la migliore amica, con il marito. Perché non dovrebbe capitare con un figlio che rappresenta la relazione più intensa che sperimentiamo nella vita? Quando amiamo qualcuno questo qualcuno ha un grande potere su di noi: può renderci felici o tristi e a volte, a questo potere, vien voglia di ribellarsi sperimentando appunto l’insofferenza, il fastidio. Le donne devono imparare ad accettare queste emozioni, che fanno parte dell’essere umano, e legittimarsi ad essere quello che si è rinunciando all’idea di essere una madre perfetta. I bambini non hanno bisogno di madri perfette, che tanto non esistono, ma di persone autentiche e presenti.

Un’altra profonda difficoltà è quella di rendersi conto che il proprio bambino è Altro da sé, razionalmente lo capiamo, ci sembra ovvio, ma emotivamente le cose si complicano. Alcune mamme, inconsapevolmente, proiettano questioni irrisolte sul proprio bambino attribuendogli significati e intenzioni che non ha.

Perché secondo lei le donne fanno fatica a chiedere aiuto?

Ha ragione, le donne fanno molta fatica a chiedere aiuto. Un dato allarmante, riportato dalla letteratura, ci dice che circa il 49% delle donne sofferenti non chiede aiuto.

Il problema, oggi, è soprattutto culturale. In occidente, e ancor di più in Italia, predomina nell’immaginario collettivo l’idea della madre come colei che è sempre felice, pronta a sacrificarsi per il suo bambino. La madre che mette da parte tutto, anche se stessa, pur di accudire suo figlio e sembra quasi che più si rinuncia più si è brave, più si soffre più si è una mamma modello. In realtà l’esperienza della maternità è l’occasione più intensa di ambivalenza emotiva, quello stato per cui proviamo emozioni opposte per la stessa persona, compreso nostro figlio, ma nella nostra società questa parte di ombra dell’esperienza materna viene negata. Si idealizza il ruolo materno e prova di questo la ritroviamo nei detti popolari, nelle aspettative della gente (quando una donna partorisce deve essere felice, per il mondo), nelle pubblicità. In un mondo così diventa difficile chiedere aiuto poiché si ha paura del giudizio, dello stigma sociale.

“Mi sentivo sempre triste… ma avevo paura di dirlo in giro. Avrebbero pensato che avrei potuto fare del male al mio bambino”, questa una frase tipica delle mamme.

Un altro aspetto, poi, che può rientrare nella difficoltà del chiedere aiuto è anche la fatica, da parte di alcune donne, di rinunciare all’idea di essere onnipotenti e capaci di fare tutto e di farlo bene.

La realtà, invece, è che nessuno si salva da solo.

E, sembra scontato dirlo, la madre perfetta NON ESISTE.

In Lombardia 1 mamma su 3 soffre di depressione post partum, eppure non esistono in Italia delle linee guida universali per trattare la malattia, soprattutto sul terreno della prevenzione. Che tipo di aiuti ci sono allora?

Da qualche anno esistono delle linee guida ufficiali presentate da Osservatorio Nazionale per la Salute della Donna (Onda) e ideate dagli specialisti di sei centri di eccellenza italiani che affrontano le tre dimensioni della prevenzione, diagnosi e trattamento.

Sul territorio di Milano, dove vivo e lavoro, ci sono gruppi di sostegno nel dopo parto in diversi consultori del servizio sanitario nazionale e molte offerte anche nel privato sociale.

Personalmente credo che ci sia ancora molto da fare in termini di prevenzione e sostegno. E’ necessario aumentare i servizi offerti, soprattutto nel dopo parto, in tutto il territorio nazionale rendendoli facilmente fruibili e investendo sulla formazione dei professionisti che gravitano intorno alla futura mamma come ginecologi, medici di base e pediatri, figure che potrebbero intercettare i primi sintomi di un disagio ed inviare ai servizi di competenza.

Un altro servizio, che in alcuni paesi d’Europa funziona molto bene, è l’home-visiting ovvero il sostegno ostetrico e psicologico a domicilio nel dopo parto: sarebbe bello che diventasse una realtà anche italiana poiché è dimostrata, da diverse ricerche, la sua valenza preventiva

Dopo quanto tempo ci si può considerare guarite?

Ogni storia è soggettiva e non è possibile prevedere, in anticipo, la durata della cura o della risoluzione spontanea della crisi depressiva. Si può andare da alcuni mesi a, nelle forme più gravi, un paio di anni.

La guarigione dalla depressione post parto è spesso il risultato di un susseguirsi di alti e bassi piuttosto che un miglioramento immediato dell’umore. Ma uscirne è assolutamente possibile, questo è certo.

Tutta la letteratura ci offre un dato importantissimo: è dimostrato che gli interventi tempestivi, già nelle prime fasi della manifestazione del disagio, permettono una risoluzione più rapida del problema.

Le donne devono assumersi la responsabilità di chiedere aiuto, subito.

Secondo lei i corsi pre parto dovrebbero essere migliorati per affrontare anche gli aspetti emotivi della maternità?

Certo. Si potrebbe, ad esempio, smetterla di idealizzare l’esperienza del parto e dell’incontro con il bambino e dare più spazio all’ambivalenza emotiva e al dolore. Ad esempio a nessuna mamma viene detto che l’esperienza del dare la vita è anche un’esperienza di lutto: una parte di lei non ci sarà più. Gli operatori, a volte, mi dicono che argomenti di questo genere potrebbero spaventare le donne: non è vero! In questo modo le si aiuta a costruire una consapevolezza di sé che rappresenterà un buono strumento per affrontare il cambiamento.

Anche i papà possono soffrirne, sebbene si parli poco di questo aspetto. Lei ha avuto qualche esperienza in merito?

Secondo uno studio britannico della Oxford University, pubblicato sul Journal Psychological Medicine, una percentuale che oscilla tra il 4 e il 5 per cento dei maschi che hanno appena avuto un figlio soffre di depressione post parto; inoltre essi hanno una probabilità significativamente maggiore di avere un umore depresso se la loro compagna è depressa. In ogni caso, anche quando non si sviluppa un vero quadro psicopatologico, per i padri la nascita di un bambino rappresenta una notevole fonte di cambiamento e di stress e, come tale, può portare a vivere disagio e sofferenza.

La clinica ci insegna che a volte la manifestazione della depressione post parto, negli uomini, segue un versante più di tipo maniacale o ipomaniacale ovvero presentano umore persistentemente elevato, espansivo, o irritabile, aumentano in modo eccessivo le attività fuori casa: lavorano molto di più, bevono o fanno uso di sostanze, escono tutte le sere ecc..

Anche per gli uomini vale l’influenza dell’ambiente sociale e culturale nello sviluppo delle aspettative irrealistiche. In televisione, nelle pubblicità, nell’immaginario collettivo si tende a sostenere che la relazione di coppia si rafforzerà sicuramente e fin da subito grazie all’arrivo del bambino o che la vita non cambierà molto.

E’ molto più difficile che un padre chieda aiuto ad un professionista poiché nella nostra cultura italiana vige anche il pregiudizio che un uomo non deve chiedere mai, men che meno quando diventa genitore.

Insomma c’è ancora molto lavoro da fare soprattutto dal punto di vista culturale: cambiare la mentalità, abbattere pregiudizi e tabù, questa è una delle priorità.

Come? Iniziamo col dire la verità. La verità sull’esperienza della maternità, del diventare genitori, sulle emozioni provate, sul dolore, sulle fatiche. La verità salva, sempre.

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