Erika Zerbini e il coraggio di parlare del lutto perinatale

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Erika Zerbini è una delle donne più forti che conosca (anche se solo virtualmente). Mi ha spesso sostenuto durante questo percorso di divulgazione della depressione post partum – parlando benissimo anche del mio libro “Out of the blue” – io non posso fare altro che ricambiarla. Perché lei si batte da tempo per far conoscere un argomento tabù, che nella maternità non deve nemmeno essere nominato: il lutto perinatale. Purtroppo – esattamente come accade con la depressione post partum – se si viene colpiti da questo tipo di dolore bisogna fare finta di niente. Andare avanti. Abbozzare magari un mezzo sorriso quando ti dicono “beh, ma puoi farne un altro”, oppure “andrà meglio la prossima volta”, come se quelli che si hanno avuto in pancia fossero solo dei grumi di cellule e non individui già formati. Io non ci sono mai passata e non trovo magari bene le parole, per cui lascio a lei il racconto della sua storia (in fondo troverete l’indirizzo del suo libro e i libri di cui è autrice). 

“Sono nata mamma la prima volta quasi 14 anni fa.

Avevo grandi aspettative sulla maternità! Mi aspettavo di non sentirmi più sola: mai più. Mi aspettavo di appagare ogni mio bisogno affettivo, lo dicono tutti: i figli sono il centro del mondo, l’amore più grande, tutto il resto può crollare, ma grazie a loro ci sarà sempre una buona ragione per essere felici!

In effetti, dalla nascita di mia figlia, il mio mondo è crollato: proprio tutto. Dal lavoro perso perché una donna-mamma non è più affidabile, alla sicurezza (si fa per dire) economica sfumata e la difficoltà di trovare un altro lavoro, per via di quella poca affidabilità che un figlio, ahimè, porta con sé. Fino al crollare della famiglia. No, non è stata la nascita della bambina a compromettere quel rapporto: la sua nascita ha solo spostato il punto di vista, mi ha mostrato le falle esistenti da sempre e irrimediabili, nonostante i tanti tentativi di riparare.

Così mi sono trovata ad essere una mamma sola, profondamente sola. Mia figlia non ha riempito il mio bisogno affettivo, tutt’altro, ha duplicato la sensazione di solitudine e inadeguatezza.

Certo le volevo molto bene, ma non sapevo… non sapevo come fare per farla smettere di piangere, per avere il tempo di fare pipì, per potermi fare una doccia, per riuscire a calmare le coliche, per dormire senza farle da materasso, che ormai la mia schiena non mi reggeva più. Non sapevo come volerle bene… non sapevo più nulla, nessun punto di riferimento e quell’istinto che tutti decantavano, mi pareva di non possederlo. Una volta l’istinto mi ha fatto lanciare la carrozzina (con lei dentro) contro l’armadio… segno che il mio non fosse un istinto sempre da ascoltare.

Sono stati anni duri, finché ho incontrato colui che è diventato mio marito.

Allora ho sperimentato la pace del cuore.

Come dice Ligabue:

“Ci si sceglie per farselo un po’ in compagnia, questo viaggio in cui non si ripassa dal via…”, l’amore conta, eccome!

Non ero più sola: accanto a me una metà, la mia metà e finalmente, noi tre, eravamo diventati una famiglia. Quindi un grande desiderio di maternità: senza più grandi aspettative, senza sogni o preconcetti, ma con tanta curiosità di vedere chi sarebbe arrivato, se fosse arrivato qualcuno… è arrivata una bambina e alcune costanti sono rimaste immutate: poco tempo per una doccia, pipì non più di due volte al dì, pianti e pianti e pianti… ma non mi sentivo sola, anche se di fatto per la maggior parte del tempo lo ero.

Ecco che ho cominciato a comprendere quanto quel villaggio di cui si parla tanto, in effetti abbia il suo senso.

Essere genitori delle nostre figlie, vederle crescere, potere assistere alle conquiste, collezionare tanti sorrisi, nonostante la fatica che c’è, per carità, ci ha mostrato spazio libero per qualcun altro dei nostri.

In un anno abbiamo avuto altre due figlie: loro non ci sono, non le vediamo crescere, le abbiamo seppellite. Sono nate morte, la prima a 21 settimane di gravidanza, la seconda a 17.

Sono state le uniche figlie che abbiamo fatto davvero insieme, poiché tutti gli altri sono nati da un taglio cesareo: il mio corpo rimestato da mani sconosciute, mio marito dietro una porta chiusa ad aspettare impaziente… Queste nostre figlie invece sono nate naturalmente: eravamo insieme quando le abbiamo concepite, poi allacciati quando sono venute al mondo, in una sala parto vera, e poi stretti quando abbiamo posto la loro targa di marmo, al cimitero.

Ci è voluto tempo per digerire tutto quel dolore, la frustrazione di non avere potuto fare niente per salvarle, l’immensa solitudine di un ventre vuoto e una casa da svuotare di cose che non sarebbero più servite. La pena di dovere accettare che la nostra famiglia avrebbe dovuto fare senza di loro. Non una, ma due figlie. Non ero più capace di dare la vita: più che una madre, mi sentivo una tomba. Non sapevo più come fare per tornare a sentire il desiderio di vivere: le figlie vive non bastavano, potevo vivere per loro esattamente come potevo morire per le sorelle.

Eppure non volevo perdermi, anche se ho avvertito vicinissimo il pericolo… Mio marito mi guardava, mi teneva, mi ascoltava, c’era. Sempre.

Lui ha vissuto questi lutti in modo diverso, ma ha saputo accogliere ogni mia ombra, ascoltare ogni incubo e aspettare che l’assenza diventasse normalità.

Entrambi abbiamo accettato di non essere onnipotenti, di non avere il controllo sulle cose, nemmeno sulla nostra vita. Occhi negli occhi, ad un certo punto abbiamo preso una decisione: quel posto in famiglia era rimasto vacante, l’assenza non lo aveva riempito, così abbiamo attinto a tutta la nostra fiducia nella vita e nel fatto che le cose non vadano sempre male, ci abbiamo aggiunto tutta la speranza che abbiamo trovato, il mare di coraggio che c’è voluto ed è arrivato il più piccolo della famiglia. Qualche volta ci fermiamo a guardarlo e ce lo diciamo: è proprio quello dei nostri che mancava!

Volendo fare un bilancio di questi miei primi 40 anni, vissuti a costruire me, la mia famiglia e il mio posto ne mondo, posso dire che il mio essere mamma fa di me gran parte di ciò che sono. Anche la relazione con le figlie che non ho più, mi definisce. Ma è mio marito a completare ciò che sono e posso diventare.

L’amore ha tanti volti e non ne conosco uno davvero totalizzante: tutti hanno il loro senso, il loro valore e insieme fanno quella pace del cuore che mi fa sentire felice“.

Foto credits: dal web
Professionemamma.net 

Ecco i libri pubblicati da Erika:

“Nato vivo”
“Professione mamma”
“Questione di biglie” (per info guardate qui)

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