#mammekids: ecco che cosa ho imparato (e ho scoperto di non sapere niente)

mammekids

Dopo aver partecipato lo scorso febbraio alla conferenza stampa di #mammekids, oggi sono andata alla prima giornata di lavori che si è svolta a Milano, in Open, una libreria speciale che si trova in Viale Montenero. Avendo appunto due figlie piccole, ma bambine del loro tempo, è giusto che io come genitore impari a capire come relazionarmi con le nuove tecnologie (ci avete mai fatto caso che siamo l’ultima generazione che si ricorderà com’era il mondo senza internet?). Non so i vostri bimbi, ma Paola guarda i cartoni o sul cellulare o sull’iPad, mentre Vittoria – nonostante per età ovviamente non sia in grado di capire come funzioni – è molto attratta dallo smartphone.

Per me la rete è stata molto utile: qui ci ho trovato le informazioni che mi hanno salvato la vita, permettendomi di sapere che all’Ospedale Niguarda curano le mamme con la depressione post partum. Prima nessuno mi aveva saputo dire cosa fare e dove andare. Per questo penso che la tecnologia non sia da demonizzare, anzi: dovrò spiegare alle mie figlie gli strumenti per poter utilizzare internet in maniera consapevole, per fare in modo che si possano sentire parte attiva di questo cambiamento storico e non che subiscano i social, con possibili conseguenze anche drammatiche.

Ho capito una cosa fondamentale. Ovvero che non sapevo niente. Ho sempre dato per scontato che mi sarei saputa comportare in ambito di bambini e tecnologia. In fondo, anch’io all’inizio ne ero digiuna. Eh no, cara Valentina. Non è così. Perché per le mie figlie è naturale inglobare nella quotidianità gli schermi che le circondano. Loro sono digital birds: tornando ai miei studi in comunicazione, nella loro dieta mediale c’è di tutto un po’ da sempre, mentre per me – almeno fino a un certo punto della vita – la dieta era assai più povera.

Ho capito che i bambini devono essere (ancora di più) ascoltati: “Il bambino qualsiasi età abbia è in grado di esprimere la propria opinione. Se  ha diritto all’ascolto, ha anche il diritto di parlare” dice Fiammetta Casali, Presidente Unicef Milano.  E questo vale ancora di più con le tecnologie, dove i pericoli sono dietro l’angolo: “Attenzione: perché i pedofili in rete sono forti. Solo il 10% delle scuole secondo dati Censis ha monitoraggio dei bambini attraverso questionari a bambini e genitori” dichiara Maria Benigno Bruni, Presidente di Bambini Ancora Onlus, associazione che da 15 anni si occupa di minori vittime di abusi.

paola computer

Ho capito che noi genitori non possiamo pensare: “a me non può capitare o a mio figlio non succede“. Siamo noi come educatori – ma non solo noi, anche voi insegnanti dove siete? – a dover lavorare su due fronti: rendere l‘ambiente di navigazione sicuro – e a questo serve per esempio Kaspersky Safe Kids, un software che permette di utilizzare delle restrizioni nella navigazione a seconda dell’età dei figli in modo che non incorrano nei pericoli -e avere un dialogo con i nostri figli. Spiegare loro che certe cose non le possono vedere, che il cellulare non è il loro ma è nostro, che se mai glielo abbiamo prestato e che dobbiamo sapere che cosa ci fanno. Secondo i dati presentati da Kaspersky,  solo 4 genitori su 10 parlano delle minacce on line e addirittura 3 su 10 non fanno nulla!

“Il bullismo è un fenomeno molto piccolo ma molto intenso, cresce con l’età scolare: persino alle elementari ci sono già delle vessazioni, ma sono di natura minore rispetto a quelle di altre età” dice Nicola Iannaccone, psicologo, già autore del libro “Stop al cyberbullismo“. Importante sottolineare come il bullismo – e anche il cyberbullismo – coinvolge una serie di soggetti, non è importante com’è fatto il bullo, è il gruppo che lo legittima. “I ragazzi si sentono popolari se hanno tanti like sui video che postano” dice Anastasia buda di Samsung Italia ed è appunto il gruppo che alimenta un comportamento sbagliato (a proposito: se conoscete qualcuno che ne è vittima, questo è il numero attivato proprio da Samsung per denunciarlo 393 300 90 90).

Ho imparato che c’è bisogno di fare più rete, tra noi adulti. A non puntare il dito contro il bambino che scherza in modo pesante contro un altro e poi fare lo stesso su Facebook. Perché si sa che i nostri figli imparano da noi. Al tempo stesso le “conversazioni on line”  sono una grossa risorsa non solo per chiedere aiuto, ma anche per condividere idee e nuovi entusiasmi.

Ho capito che dobbiamo ripensare all’idea di scuola. “Cos’è la scuola? La scuola è un luogo magico. L’unico luogo in cui si progetta il proprio futuro insieme alla famiglia” dice Giulio Massa A.D. IST. DE AMICIS e Presidente del Comitato Regionale Lombardia A.N.I.N.S.E.I. Per Paola e Vittoria spero che non sarà un posto in cui annoiarsi, in cui non si vuole andare, ma dove imparare – con fatica, perché lo studio costa sudore – magari anche divertendosi. La tecnologia però porta dei problemi: il docente deve diventare un grande motivatore, deve tramutare i talenti in progetti, non è più sufficiente che dia delle informazioni perché i ragazzi ne sanno più di noi. E allora qual è il futuro? La scuola deve dare  – ancora una volta – strumenti e capacità per usarli, senza dimenticare il ruolo dei docenti (“professori mediocri sono mediocri anche con la tecnologia”) e della famiglia che devono ritornare ad essere alleate.

Ho imparato che ci possono essere nuove cose da imparare, come il coding che insegna una serie di abilità che saranno importanti non solo per le professioni del futuro, ma anche per i cittadini del domani. Con il coding i bambini imparano a programmare, ma possono sbagliare, posso ritentare, posso creare: “il coding è una risorsa grandissima, perché i nostri bambini possono essere quello che vogliono, possono applicare il coding in ciò che a loro piace di più, costruendosi uno zainetto di competenze che servirà loro quando saranno grandi” dice Barbara Laura Alaimo, pedagogista e co-founder di CODERDOJO MILANO.

Ho imparato che non giochiamo abbastanza. Che non importa se siamo adulti: il gioco è alimento di relazione a tutti i livelli, anche quando cresciamo. Lo dice Paolo Taverna, Presidente di Assogiocattoli, mostrando la sintesi dei risultati di una ricerca sulle abitudini di gioco di 538 bambini fino ai 12 anni: lo sapevate ad esempio che durante la settimana i genitori giocano con i figli meno di un’ora? Per questo non c’è da stupirsi che i bimbi ricevano lo smartphone ancora prima delle chiavi di casa: a 11 anni. 

Grazie a Antonella Pfeiffer e a Marta Ferrari: due donne speciali – rispettivamente organizzatrice e moderatrice dell’evento che mi hanno fatto capire che posso essere un genitore ancora migliore.

Leave a Reply

*

Next ArticleLa depressione post partum e quel "mai detto" in famiglia