Una storia da raccontare. Una mamma, semplicemente.

Una mamma infelice è una mamma scomoda.

E’ arrivata ieri tra le prime storie di mamme che hanno accettato di raccontare la propria depressione post partum. L’ho letta e ho pianto. Perché per un attimo sono andata indietro con la memoria e mi sono vista mentre guardavo fuori dalla finestra di quella che allora era la mia casa e ho pensato di buttarmi di sotto. Paola dormiva nella sua carrozzina, pacifica. Non si sarebbe accorta di niente. “Perché ho avuto questa disgrazia?” mi ripetevo. La mia bellissima bambina una disgrazia. Mentre ripensavo a questo la Paola di oggi si è avvicinata e mi ha abbracciato e si è preoccupata perché mi ha visto piangere. Le ho detto che quando era molto piccola, la mamma per un periodo non è stata molto bene. Lei mi ha risposto: “Andiamo a giocare?” come se volesse farmi capire che non importa chi ero. Ora sono la sua mamma che gioca con lei. E questo le basta.

Non pensavo di farcela. Non credevo sarebbe arrivata l’estate, poi persino un nuovo inverno. Ero convinta sarei morta prima. O finita in una clinica. O che avrei superato qualche limite. Il primo anno di vita di mio figlio (ora 19 mesi, arrivato sei anni dopo la sorella, in netto ritardo rispetto alle aspettative) è stato lento come una tartaruga impantanata. Un anno stressante, terribile. Di ansie, stanchezza, dolore.

Ancora adesso, quando vedo le donne con il pancione, mi sento mancare. Vedo le carrozzine con i neonati e vorrei vomitare. Mi dico che mio figlio è grande, anche se certi giorni mi sembra ancora così piccolo. Così bisognoso. Così attaccato, dipendente, a volte morboso.

Il nostro è stato ed è un amore difficile, estremo e contraddittorio, ambiguo e sofferto. Ho avuto il reflusso con lui, ho pianto con lui. Piango ancora: per tutto. Ci sono state giornate in cui avrei preferito morire, non vederlo, non sentirlo, tornare indietro. Poi, oggi, riguardo le sue foto: è così bello, ha gli occhi più potenti che io abbia mai visto. Vorrei sapere cosa sogna, cosa guarda, cosa pensa di me.
Ho dimenticato molto, ho soffocato e seppellito. Mi è servito ad esorcizzare, a pulirmi, a rialzarmi. A lasciarmi quel senso di depressione e morte sotto i piedi, a schiacciarlo giù. Anche adesso vivo e cancello, vivo e cancello. Continuo a imbustare i body che non gli vanno più bene, le magliette di una taglia di meno. Ho tolto dal mio raggio tutto quello che mi ricorda un neonato: la carrozzina l’ho buttata via, non ho chiesto a nessuno se la volesse. Lì dentro urlava e basta.

Nessuno mi ha capita, nessuno mi ha aiutata. Sono stata lasciata sola nel tunnel. Gridavo dal fondo del pozzo: nessuno ha calato la corda per tirarmi su. Ho sentito, invece, sguardi giudicanti appiccicarsi addosso a me, spie accese, antenne dritte. Ho ascoltato parole di troppo, mai giuste, mai adeguate: “Ricordati che la maternità è comunque l’evento più bello della vita“, “non hai un minimo di pazienza”, “non fare così siamo una famiglia unita”.

Una mamma infelice è scomoda. È una nota malata, un tasto dolente. Stona, stona sempre e va messa a tacere. Che importa se quando apre gli occhi la mattina sente che un camion sta per travolgerla. Che si ripete “chi me l’ha fatto fare”, che vorrebbe solo la sua vita di prima indietro.

Io mi sono sentita così: infelice, inadeguata, al posto sbagliato, con un devastante senso di colpa perché non riuscivo più a dare nulla di buono alla mia bambina più grande. A volte mi guardo alle spalle: della depressione nessuna traccia. Altre, invece, la sento ronzare ancora, fastidiosa e subdola, stronza quanto basta a farti capire che no, del tutto fuori non sei ancora.

Non sono andata dallo psicologo: per mancanza di tempo e di soldi. Non ho preso farmaci: per paura. Ho sbagliato? Non lo so. Ma questa esperienza mi ha segnata a vita, mi ha tolto ogni alone di romanticismo dal mio orizzonte mentale materno. Nonostante, mio figlio, l’abbia desiderato e cercato per anni. Un’altra delle motivazioni che mi veniva messa davanti al naso per convincermi che no, io depressa proprio non potevo permettermi di essere”.

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2 comments

  1. Maria

    Questa profonda e potentissima testimonianza mi ha lasciata senza fiato, e in particolare certi suoi passaggi che non sfigurerebbero in un romanzo, e che catturano perfettamente le tipiche reazioni alla DPP in famiglia. L’autrice è molto talentuosa e potrebbe a mio avviso tranquillamente aspirare a fare la scrittrice di professione, se non lo fa già.
    <>.

  2. Valentina Colmi

    Eh, magari lo è già, ha ragione.

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